Tolstoj Aleksy - Anna Karenina.rtf

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ANNA KARENINA

ANNA KARENINA

Lev Tolstoj

 

 

A me la vendetta, io farò ragione

 

 

 

PARTE PRIMA

 

I

 

 

Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.

Tutto era sottosopra in casa Oblonskij. La moglie era venuta a sapere che il marito aveva una relazione con la governante francese che era stata presso di loro, e aveva dichiarato al marito di non poter più vivere con lui nella stessa casa. Questa situazione durava già da tre giorni ed era sentita tormentosamente dagli stessi coniugi e da tutti i membri della famiglia e dai domestici. Tutti i membri della famiglia e i domestici sentivano che non c’era senso nella loro convivenza, e che della gente incontratasi per caso in una qualsiasi locanda sarebbe stata più legata fra di sé che non loro, membri della famiglia e domestici degli Oblonskij. La moglie non usciva dalle sue stanze; il marito era già il terzo giorno che non rincasava. I bambini correvano per la casa abbandonati a loro stessi; la governante inglese si era bisticciata con la dispensiera e aveva scritto un biglietto ad un’amica chiedendo che le cercasse un posto; il cuoco se n’era già andato via il giorno prima durante il pranzo; sguattera e cocchiere avevano chiesto di essere liquidati.

Tre giorni dopo il litigio, il principe Stepan Arkad’ic Oblonskij — Stiva, com’era chiamato in società — all’ora solita, cioè alle otto del mattino, si svegliò non nella camera della moglie, ma nello studio, sul divano marocchino. Rigirò il corpo pienotto e ben curato sulle molle del divano, come se volesse riaddormentarsi di nuovo a lungo, rivoltò il cuscino, lo abbracciò forte e vi appoggiò la guancia; ma a un tratto fece un balzo, sedette sul divano e aprì gli occhi.

“Già già, com’è andata? — pensava riandando al sogno. — Già, com’è andata? Ecco... Alabin aveva dato un pranzo a Darmstadt; no, non Darmstadt, ma qualcosa d’America. Già, ma là, Darmstadt era in America. Sì, sì, Alabin aveva dato un pranzo su tavoli di vetro, già, e i tavoli cantavano ‘Il mio tesoro’, eh no, non ‘Il mio tesoro’, ma qualcosa di meglio; e c’erano poi certe piccole caraffe, ed anche queste erano donne” ricordava.

Gli occhi di Stepan Arkad’ic presero a brillare allegramente ed egli ricominciò a pensare sorridendo: “Eh già, si stava bene, tanto bene. Ottime cose là; ma prova un po’ a parlarne e a pensarne; da sveglio neanche arrivi a dirle”. E, notata una striscia di luce che filtrava da un lato della cortina di panno, sporse allegramente i piedi fuori dal divano, cercò con essi le pantofole di marocchino dorato ricamategli dalla moglie (dono per l’ultimo suo compleanno), e per vecchia abitudine, ormai di nove anni, senza alzarsi, allungò il braccio verso il posto dove, nella camera matrimoniale, era appesa la vestaglia. E in quel momento, a un tratto, ricordò come e perché non dormiva nella camera della moglie, ma nello studio, il sorriso gli sparve dal volto; corrugò la fronte.

— Ahi, ahi, ahi! — mugolò, ricordando quanto era accaduto, e gli si presentarono di nuovo alla mente tutti i particolari del litigio, la situazione senza via di uscita e, più tormentosa di tutto, la propria colpa.

“Già, lei non perdonerà, non può perdonare. E quel ch’è peggio è che la colpa di tutto è mia... la colpa è mia, eppure non sono colpevole! Proprio in questo sta il dramma” pensava. “Ahi, ahi, ahi!” ripeteva con disperazione, ricordando le impressioni più penose per lui di quella rottura.

Più spiacevole di tutto il primo momento, quando, tornato da teatro, allegro e soddisfatto, con un’enorme pera in mano per la moglie, non l’aveva trovata nel salotto; con sorpresa non l’aveva trovata neanche nello studio, e infine l’aveva scorta in camera con in mano il malaugurato biglietto che aveva rivelato ogni cosa.

Lei, quella Dolly eternamente preoccupata e inquieta, e non profonda, come egli la giudicava, sedeva immobile, con il biglietto in mano, e lo guardava con un’espressione di orrore, d’esasperazione e di rabbia.

— Cos’è questo biglietto, cos’è? — chiedeva mostrando il biglietto.

E a quel ricordo, come talvolta accade, ciò che tormentava Stepan Arkad’ic non era tanto il fatto in se stesso, quanto il modo col quale egli aveva risposto alle parole della moglie.

Gli era accaduto in quel momento quello che accade alle persone che vengono inaspettatamente accusate di qualcosa di troppo vergognoso. Non aveva saputo adattare il viso alla situazione in cui era venuto a trovarsi di fronte alla moglie dopo la scoperta della propria colpa. Invece di offendersi, negare, giustificarsi, chiedere perdono, rimanere magari indifferente — tutto sarebbe stato meglio di quel che aveva fatto — il suo viso, in modo del tutto involontario (azione riflessa del cervello, pensò Stepan Arkad’ic, che amava la fisiologia), in modo del tutto involontario, aveva improvvisamente sorriso del suo usuale, buono e perciò stupido sorriso.

Questo stupido sorriso non riusciva a perdonarselo. Visto quel sorriso, Dolly aveva rabbrividito come per un dolore fisico; era scoppiata, con l’impeto che le era proprio, in un diluvio di parole dure, ed era corsa via di camera. Da quel momento non aveva più voluto vedere il marito.

“Tutta colpa di quello stupido sorriso — pensava Stepan Arkad’ic. — Ma che fare, che fare?” si chiedeva con disperazione, e non trovava risposta

 

II

 

Stepan Arkad’ic era un uomo leale con se stesso. Non poteva ingannare se stesso e convincersi d’essere pentito del suo modo di agire. Non poteva, in questo momento, pentirsi di non essere più innamorato — lui, bell’uomo trentaquattrenne, facile all’amore — di sua moglie, di un anno solo più giovane, madre di cinque bambini vivi e di tre morti. Era pentito solo di non averlo saputo nascondere più abilmente alla moglie. Ma sentiva tutto il peso di questa situazione e commiserava la moglie, i figli e se stesso. Forse avrebbe cercato di nascondere più accortamente le proprie colpe alla moglie, se avesse previsto che questa scoperta avrebbe agito tanto su di lei. A questo non aveva riflettuto mai con chiarezza; tuttavia, vagamente, si figurava che sua moglie, da tempo, indovinasse che egli non le era fedele e chiudesse un occhio. Gli sembrava inoltre che lei, donna esaurita, invecchiata, non più bella e per nulla affatto interessante, semplice, buona madre di famiglia soltanto, dovesse, per un senso di giustizia, essere indulgente. Era avvenuto il contrario.

“Ah, è terribile! Ahi, ahi, ahi, ahi! Terribile! — si ripeteva Stepan Arkad’ic e non riusciva a trovare una via d’uscita. — E come andava tutto bene prima d’ora! Come vivevamo bene! Lei era contenta, felice dei bambini; io non l’ostacolavo in nulla, la lasciavo libera di regolarsi come voleva, coi bambini, con la casa. È vero, non è bello che quella sia stata governante in casa nostra! Non è bello! C’è qualcosa di triviale, di volgare nel far la corte alla propria governante. Ma che governante! — e ricordò con vivezza il riso e gli occhi neri assassini di m.lle Rolland. — Del resto finché è stata in casa nostra, io non mi sono permesso nulla. E il peggio di tutto è che già... Ci voleva proprio tutto questo, neanche a farlo apposta! Ah, ahi, ahi! Ma che fare, che fare?”

Una risposta che non c’era all’infuori della risposta comune che dà la vita a tutte le più complicate e insolubili questioni, e la risposta è questa: bisogna vivere delle piccole necessità del giorno, smemorarsi. Nel sogno non è più possibile; almeno fino a stanotte, non si può tornare alla musica che cantavano le donne-caraffe; ci si deve dunque smemorare con il sonno della vita.

“Staremo a vedere” si disse Stepan Arkad’ic e, alzatosi, indossò la veste da camera grigia dalla fodera di seta azzurra, fermò i due lacci con un nodo, e introdotta aria a sazietà nella vasta cavità toracica, coll’usuale passo deciso dei suoi piedi all’infuori che così leggermente sostenevano il corpo pienotto, si avviò alla finestra, sollevò la tenda e sonò forte. Entrò subito il suo vecchio amico, Matvej il maggiordomo, che portava il vestito, le scarpe e un telegramma. Dietro a Matvej entrò anche il barbiere con l’occorrente per la barba.

— Ci sono carte d’ufficio? — chiese Stepan Arkad’ic dopo aver preso il telegramma, sedendosi di fronte allo specchio.

— Sulla tavola — rispose Matvej. Guardò interrogativamente, con interesse, il padrone, e, dopo aver atteso un poco, aggiunse con un sorriso ammaliziato: — Sono venuti da parte del signor cocchiere.

Stepan Arkad’ic non rispose nulla e guardò soltanto Matvej nello specchio: nello sguardo che incrociarono era evidente come si intendessero l’un l’altro. Lo sguardo di Stepan Arkad’ic sembrava chiedere: “Perché dici questo? che forse non sai?”. Matvej ficcò le mani nelle tasche del giubbetto, tirò indietro una gamba in silenzio, bonariamente, sorridendo appena, guardò il padrone.

— Ho detto loro di venire la prossima domenica, e che fino allora non si disturbino e non disturbino voi inutilmente — disse con una frase evidentemente già preparata.

Stepan Arkad’ic capì che Matvej voleva scherzare e attirare su di sé l’attenzione. Aperto il telegramma, lo lesse, correggendo per intuito le parole, come sempre alterate, e il viso gli si illuminò.

— Matvej, mia sorella Anna Arkad’evna viene domani — disse, arrestando per un attimo la mano lustra e grassoccia del barbiere che andava tracciando una via rosea tra le lunghe fedine ricciute.

— Sia lodato Iddio — disse Matvej, mostrando con la risposta di capire, allo stesso modo del padrone, il significato di questo arrivo, e che cioè Anna Arkad’evna, sorella carissima di Stepan Arkad’ic, poteva contribuire alla riconciliazione tra marito e moglie.

— Sola o col consorte? — chiese Matvej.

Stepan Arkad’ic, che non poteva parlare perché il barbiere era alle prese col labbro superiore, alzò un dito solo. Matvej fece cenno col capo nello specchio.

— Sola. C’é da preparare di sopra?

— Chiedilo a Dar’ja Aleksandrovna; dove dirà lei.

— A Dar’ja Aleksandrovna? — ripeté con aria dubbiosa Matvej.

— Sì, diglielo. Ecco, prendi il telegramma, riferiscimi poi.

“Volete provare” pensò Matvej, ma disse solo:

— Sissignore.

Stepan Arkad’ic era già lavato e pettinato e si preparava a vestirsi quando Matvej, camminando lentamente con le scarpe che scricchiolavano, rientrò nella stanza col telegramma in mano. Il barbiere era già andato via.

— Dar’ja Aleksandrovna ha ordinato di dirvi che parte. Che faccia pure come piace a lui, cioè a voi — disse, ridendo solo con gli occhi e, cacciate le mani in tasca e chinato il capo da un lato, fissò il padrone.

Stepan Arkad’ic tacque. Poi un sorriso buono e un po’ pietoso apparve sul suo bel viso.

— Eh, Matvej — disse, scotendo il capo.

— Non è nulla, signore; tutto si appianerà — disse Matvej.

— Si appianerà?

— Proprio così.

— Credi? Chi c’è di là? — chiese Stepan Arkad’ic sentendo dietro la porta un fruscio di abito femminile.

— Sono io, signore — disse una voce di donna, e di dietro la porta si sporse il viso severo e butterato di Matrëna Filimonovna, la njanja.

— E allora, Matrëna? — domandò Stepan Arkad’ic andandole incontro sulla porta. Sebbene Stepan Arkad’ic fosse per ogni verso colpevole di fronte alla moglie, ed egli stesso lo sentisse, quasi tutti in casa, persino la njanja, la più grande amica di Dar’ja Aleksandrovna, erano dalla parte sua.

— E allora? — disse con aria afflitta.

— Andate da lei, signore, dichiaratevi ancora colpevole. Forse Iddio lo concederà. Si tormenta molto ed è una pena guardarla, e poi tutto in casa va alla malora. Ci si deve preoccupare dei bambini, signore. Accusatevi, signore. Che fare? Fatto il male...

— Eh già, non mi riceverà...

— E voi fate il dover vostro. Dio è misericordioso, pregate Iddio, signore, pregate Iddio.

— E va bene; va’... — disse Stepan Arkad’ic, arrossendo improvvisamente. — Su vestiamoci — disse rivolto a Matvej, e con fare deciso si tolse la veste da camera.

Matvej teneva in mano, soffiandovi sopra come a togliere qualcosa di invisibile, la camicia disposta a collare, e con evidente soddisfazione ne circondò il corpo ben curato del padrone.

 

III

 

Vestitosi, Stepan Arkad’ic si spruzzò di profumo, assestò le maniche della camicia, distribuì per le tasche con gesti abituali le sigarette, il portafoglio, i fiammiferi, l’orologio con la catena doppia e i ciondoli e, spiegazzato il fazzoletto, sentendosi pulito, profumato, sano e, malgrado il suo guaio, fisicamente allegro, si avviò, tentennando leggermente su ciascuna gamba, verso la sala da pranzo dove già l’aspettavano il caffè e, accanto al caffè, le lettere e le carte del tribunale.

Lesse le lettere. Una era molto spiacevole: era del compratore del bosco di sua moglie. Il bosco doveva essere necessariamente venduto; ma ora, fino alla riconciliazione, non se ne poteva parlare. Più increscioso di tutto era il fatto che si veniva in tal modo a frammischiare una questione di denaro al prossimo avvenimento della riconciliazione. E il pensiero ch’egli potesse lasciarsi guidare da una questione di denaro, che per la vendita del bosco cercasse di far pace con la moglie, questo pensiero l’offendeva.

Letta la posta, Stepan Arkad’ic tirò a sé le carte d’ufficio: sfogliò in fretta due pratiche, segnò con un grosso lapis qualche annotazione e, allontanate le carte, cominciò a sorbire il caffè e nello stesso tempo, aperto il giornale della mattina, ancora umido, prese a leggerlo.

Stepan Arkad’ic riceveva e leggeva un giornale liberale, non estremista, ma della tendenza che la maggioranza sosteneva. Benché non lo interessassero in modo particolare né scienza, né arte, né politica, egli si atteneva strettamente alle opinioni alle quali, in tutte queste materie, si attenevano la maggioranza e il suo giornale, e le cambiava soltanto quando le cambiava la maggioranza, o per meglio dire non lui le cambiava, ma esse stesse, inavvertitamente, si cambiavano in lui.

Stepan Arkad’ic non sceglieva né le tendenze né le opinioni, ma queste stesse tendenze e opinioni giungevano a lui da sole, proprio allo stesso modo come non lui sceglieva la foggia del cappello o del soprabito, ma adottava quella che era di moda. E per lui, che viveva nella società più in vista, avere delle opinioni, oltre al bisogno di una certa attività di pensiero che normalmente si sviluppa negli anni della maturità, era così indispensabile come avere un cappello. E anche se c’era una ragione per preferire la tendenza liberale a quella conservatrice, cui si atteneva la maggioranza del suo ambiente, questa consisteva non solo nel fatto che egli trovava la tendenza liberale più ragionevole, ma anche perché questa era in realtà più conforme al suo modo di vivere. Il partito liberale diceva che in Russia tutto andava male, ed in effetti Stepan Arkad’ic aveva molti debiti e il denaro non gli bastava proprio. Il partito liberale diceva che il matrimonio era un’istituzione superata ed era necessario riformarlo, e in realtà la vita familiare dava scarse soddisfazioni a Stepan Arkad’ic e lo costringeva a mentire e a fingere, il che era affatto avverso alla sua natura. Il partito liberale diceva, o meglio faceva intendere, che la religione era soltanto un freno per la parte incolta della popolazione, e in realtà Stepan Arkad’ic non poteva sopportare, senza che gli dolessero le gambe, neppure il più piccolo Te Deum, e non poteva capire che senso avessero tutte quelle tremende altisonanti parole sull’altro mondo, quando anche in questo era così piacevole vivere. Inoltre a Stepan Arkad’ic, che amava gli scherzi ameni, faceva piacere turbare talvolta qualche pacifico essere col dire, che se ci si vuole inorgoglire della razza, non conviene fermarsi a Rjurik e rinnegare il progenitore, la scimmia. Dunque le opinioni liberali erano divenute un’abitudine per Stepan Arkad’ic e gli piaceva il suo giornale, così come il sigaro dopo il pranzo, per quella leggera nebbia che gli generava in testa. Lesse l’articolo di fondo, nel quale si spiegava che «al tempo nostro del tutto invano si levan querele contro il radicalismo, il quale minaccia di inghiottire tutti gli elementi conservatori, e che il governo non si decide a prendere delle misure per soffocare l’idra rivoluzionaria; che al contrario, secondo la nostra opinione, il pericolo risiede non già nella presunta idra rivoluzionaria, ma nel tradizionalismo ostinato che rallenta il progresso» e così di seguito. Lesse anche un altro articolo, finanziario, nel quale si parlava del Bentham e dello Stuart Mill e si lanciavano frecciate al ministero. Con la prontezza di spirito che gli era propria egli afferrava il senso di ogni frecciata: da chi veniva e contro chi era diretta e in quale occasione, e questo, come sempre, gli procurava un certo piacere. Ma oggi questo piacere era avvelenato dal ricordo dei consigli di Matrëna Filimonovna e dal fatto che in casa tutto andava tanto male. Lesse pure che il conte Beist, come correva voce, era partito per Wiesbaden, e che si vendeva una carrozza leggera, e che una persona giovane faceva una proposta; ma queste notizie non gli davano più il solito tranquillo, ironico compiacimento di una volta.

Finito il giornale, la seconda tazza di caffè e la ciambellina al burro, s’alzò scrollando le briciole dal panciotto e, allargando il petto ampio, sorrise di piacere: non perché avesse in animo qualcosa di particolarmente lieto, ma solo perché la buona digestione gli procurava quel sorriso di gioia.

Ma quel sorriso di gioia gli fece tornare subito tutto in mente ed egli si fece pensieroso.

Due voci infantili (Stepan Arkad’ic riconobbe le voci di Gria, il più piccolo, e di Tanja, la maggiore) si udirono dietro la porta. Avevano trascinato e lasciato cadere qualcosa.

— Lo dicevo io che non si possono lasciar sedere i passeggeri sull’imperiale — gridava in inglese la bimba — ora, su, raccatta.

«È tutto sottosopra — pensò Stepan Arkad’ic — ecco, i bambini scorrazzano da soli». E fattosi sulla porta, li chiamò. Essi lasciarono la scatola che rappresentava il treno ed entrarono dal padre.

La bimba, beniamina del padre, corse franca ad abbracciarlo e ridendo gli si appese al collo, rallegrandosi come sempre del noto profumo che si spandeva dalle sue fedine. Baciatolo infine sul volto arrossato per la posizione inclinata e raggiante di tenerezza, la bimba sciolse le braccia per scappar via, ma il padre la trattenne.

— E la mamma? — chiese passando la mano sul collo liscio e morbido della figlia. — Buongiorno — disse poi sorridendo al piccolo che salutava.

Aveva coscienza di amare meno il bambino e si sforzava di essere imparziale, ma il bambino lo sentiva e non sorrise al sorriso freddo del padre.

— La mamma? S’è alzata — rispose la bimba.

Stepan Arkad’ic sospirò. «Già; non avrà dormito tutta la notte» pensò.

— Ma è di buon umore?

La bambina sapeva che fra padre e madre c’era stata una certa questione e che la madre non poteva essere di buon umore; e il padre doveva saperlo, mentre ora fingeva, chiedendone con tanta disinvoltura. Arrossì per il padre. Egli capì subito e arrossì anche lui.

— Non so — disse. — Non ha detto di studiare, ha detto di andare a spasso con miss Hull dalla nonna.

— Su, va’, Tancurocka mia. Ah, già, aspetta — disse trattenendola ancora e guardandole la manina morbida.

Prese dal camino, là dove l’aveva messa il giorno prima, una scatola di dolci e gliene diede due, scegliendole i preferiti, uno di cioccolato e uno fondente.

— A Gria? — disse la bambina indicando quello di cioccolato.

— Sì, sì. — E accarezzando ancora una volta le piccole spalle, la baciò alla radice dei capelli e sul collo e la lasciò andare.

— La carrozza è pronta — disse Matvej. — C’è poi una persona che chiede di voi — aggiunse.

— È molto che è qui? — chiese Stepan Arkad’ic.

— Da una mezz’ora.

— Ma quante volte ti ho detto di annunziare subito!

— Bisogna pur darvi il tempo di prendere almeno il caffè — disse Matvej con quel tono fra il confidenziale e lo screanzato che non dava la possibilità di arrabbiarsi.

— Su, fa’ passare subito — disse Oblonskij aggrottando le sopracciglia dalla stizza.

La signora, moglie del capitano in seconda Kalinin, chiedeva una cosa assurda e sciocca; ma Stepan Arkad’ic, secondo la sua abitudine, la fece sedere, l’ascoltò con attenzione, senza interromperla, le consigliò dettagliatamente a chi e come dovesse rivolgersi, e le scrisse perfino alla svelta e bene, con la sua grossa, larga e bella scrittura chiara, un biglietto per la persona che avrebbe potuto aiutarla. Congedata la moglie del capitano in seconda, Stepan Arkad’ic prese il cappello e si fermò, cercando di ricordare se non avesse dimenticato qualcosa. Gli parve di non aver dimenticato nulla, fuorché quello che voleva dimenticare, la moglie.

«Ah, sì». Abbassò il capo e il suo bel viso prese un’aria afflitta. «Andare o non andare?» si diceva. E una voce interna gli diceva di non andare, che oltre a falsità non poteva esserci altro, che riparare, accomodare le loro relazioni non era più possibile, perché non era possibile rendere lei di nuovo attraente e capace di suscitare l’amore, e lui vecchio e incapace di amare. Dunque, oltre a falsità e menzogna, non ne poteva uscir fuori nulla, e la falsità e la menzogna erano avverse alla sua natura.

«Eppure prima o poi bisogna farlo; non si può restar così» disse, cercando di farsi coraggio. Raddrizzò il petto, tirò fuori una sigaretta, l’accese, ne aspirò due boccate, la gettò in un portacenere di madreperla a conchiglia, attraversò il salotto oscuro a passi svelti, e aprì l’altra porta che dava nella camera della moglie.

 

IV

 

Dar’ja Aleksandrovna, in veste da notte, con le trecce ormai rade, un tempo folte e belle, appuntate alla nuca, col viso asciutto, affilato, e i grandi occhi spauriti che risaltavano nella magrezza del viso, stava in piedi in mezzo alle cose gettate alla rinfusa per la stanza, dinanzi a un armadio aperto dal quale sceglieva qualcosa. Udito il passo del marito, si fermò guardando la porta e cercando inutilmente di dare al viso un’espressione severa e sprezzante. Sentiva di aver paura di lui, paura dell’incontro imminente. Aveva tentato proprio allora di fare quello che aveva tentato già dieci volte in quei tre giorni: preparare la roba sua e dei bambini per trasportarla dalla madre, ma poi, di nuovo, non aveva saputo decidersi: eppure anche ora, come le altre volte, diceva a se stessa che così non poteva durare, che doveva fare qualcosa, punirlo, svergognarlo, vendicarsi almeno in minima parte del male che le aveva fatto. Si diceva ogni volta che lo avrebbe lasciato, ma sentiva che questo era impossibile; era impossibile perché non poteva disabituarsi a considerarlo suo marito e ad amarlo. Sentiva, inoltre, che se qui, in casa sua, riusciva appena ad aver cura dei suoi cinque bambini, la cosa sarebbe stata ancora più difficile là, dove sarebbe andata a stare con tutti loro. E proprio in quei tre giorni, il più piccolo si era ammalato perché gli avevano dato del brodo guasto, mentre il giorno innanzi gli altri erano quasi rimasti senza mangiare. Sentiva che non era possibile andar via; ma, ingannando se stessa, preparava la roba e si fingeva di partire.

Visto il marito, tuffò la mano in un cassetto dell’armadio, come se cercasse qualcosa, e girò lo sguardo su di lui solo quando le fu proprio accanto. Ma il viso al quale aveva voluto dare un’espressione severa e decisa, esprimeva smarrimento e pena.

— Dolly! — disse lui con voce timida e sommessa. Aveva ritirato la testa nelle spalle e voleva avere un’aria afflitta e contrita, ma suo malgrado, raggiava freschezza e salute.

Con un’occhiata rapida dalla testa ai piedi ella notò la figura di lui raggiante freschezza e salute. « Già, lui è felice e soddisfatto — pensò — e io? E anche questa bontà disgustosa, che lo fa amare e lodare da tutti, io la detesto questa sua bontà» pensò. La bocca le si contrasse, il muscolo della guancia prese a tremare dalla parte destra del viso pallido e nervoso.

— Che vi occorre? — disse con voce affrettata, sorda, non sua.

— Dolly! — ripeté lui con un fremito nella voce. — Anna arriva oggi.

— Ebbene, a me che importa? Io non posso riceverla! — gridò lei.

— Eppure, Dolly...

— Andate via, andate via — gridò senza guardarlo, come se questo grido fosse provocato da un male fisico.

Stepan Arkad’ic aveva potuto rimaner tranquillo quando aveva pensato a sua moglie, aveva potuto sperare che tutto si sarebbe «appianato», così come diceva Matvej, aveva potuto leggere tranquillamente il giornale e bere il caffè; ma quando vide il viso tormentato e dolente di lei, quando udì quel tono di voce rassegnato e affranto, il respiro gli si mozzò, qualcosa gli venne alla gola e gli occhi gli brillarono di lacrime.

— Dio mio, che ho fatto! Dolly! Per amor di Dio... Del resto... — ma non poté continuare: un singhiozzo gli si era fermato in gola. Ella sbatté l’armadio e si voltò a guardarlo. — Dolly, cosa posso dire? Solo una cosa: perdona, perdona... Ricorda... nove anni di vita non possono forse far perdonare un minuto, un minuto...

Ella aveva abbassato gli occhi e ascoltava quello ch’egli stava per pronunciare, quasi supplicandolo di dire qualcosa che potesse dissuaderla.

— Un minuto di esaltazione — riprese a dire lui, e voleva continuare, ma a questa parola, come per un male fisico, a lei si strinsero i denti e di nuovo il muscolo della guancia prese a tremare dalla parte destra del viso.

— Andate via, andate via! — gridò con voce ancora più tagliente — e non mi venite a parlare delle vostre esaltazioni e delle vostre sconcezze!

Voleva andar via, ma vacillò e si aggrappò alla spalliera della sedia per sorreggersi. Il viso di lui si dilatò, le labbra si gonfiarono, gli occhi si riempirono di lacrime.

— Dolly! — pronunziò ormai singhiozzando. — In nome di Dio, pensa ai bambini, loro non sono colpevoli. Sono io il colpevole, e tu puniscimi, ordinami di scontare la mia pena. In quello che posso, sono pronto a tutto! Sono colpevole, non ci sono parole, come sono colpevole! Ma, Dolly, perdona!

Ella si mise a sedere. Egli sentiva il respiro grave di lei e gliene veniva una pena indicibile. Più volte ella si provò a parlare, ma non poté. Egli aspettava.

— Tu ti ricordi dei bambini per giocare con loro, mentre io sì che me ne ricordo, e lo so oramai che sono rovinati — disse lei, usando evidentemente una delle frasi che in quei tre giorni s’era ripetuta più d’una volta.

Gli aveva parlato col «tu», ed egli la guardò riconoscente, e si mosse per prenderle una mano, ma lei si scostò con avversione.

— Io mi ricordo dei bambini e farei di tutto al mondo per salvarli, ma non so io stessa come salvarli: se sottrarli al padre o abbandonarli a un padre depravato. Sì, depravato... Eh sì, ditemi voi, dopo quello... che c’è stato, è forse possibile vivere insieme? È possibile forse? Dite voi, è possibile? — ripeté alzando la voce.

— Dopo che mio marito, il padre dei miei figli ha una relazione con la governante dei suoi bambini...

— Ma che fare, che fare? — diceva lui con voce pietosa, non sapendo egli stesso che dire e abbassando sempre più il capo.

— Mi fate ribrezzo, disgusto! — gridò lei, riscaldandosi ancor...

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